Sveglia alle 7.30, ma come al solito alle 6 son già sveglio. L’ideale per iniziare una giornata di esplorazione nella sacra valle Inca, disorganizzato e armato di voglia di camminare, e uscire per la città ancora piuttosto deserta. Le fredde panchine delle piazze di Cusco sono occupate da senzatetto addormentati, l’aria è già irrespirabile per i pochi veicoli che transitano. In Perù si utilizza il tipo di carburante più nocivo al mondo. Le poche persone che incontro, tutte peruviane, o stanno andando a lavoro o sono ancora in giro dopo un venerdì notte estremamente alcolico, facilmente visibile dalla storta camminata. Sulle mura della città osservo alcuni poster di sanguinose corride e di stupidi combattimenti tra galli. Arrivo al terminal degli autobus e salgo al volo su uno in partenza, entro e mi trovo in uno di quei mezzi che adoro, sporco e trasandato ma affollato di indigeni e le donne, sempre elegantissime, indossano calze e maglia di lana, una gonna e il marrone cappello tradizionale da cui spuntano le lunghe treccine che si annodano sopra al fondoschiena. Si parte!
Dopo una quarantina di chilometri, al costo di 4 soles (1.25 euro), vengo scaricato nell’intersezione da cui parte una strada verso i villaggi di Maras e Moray. Incontro alcuni taxisti che cercano di convincermi a salire sui loro mezzi ma, quando leggo che il primo dista 4 chilometri e il secondo 12, decido di incamminarmi. Un taxista , insiste e mi racconta che la strada è pericolosa perché recentemente 4 francesi sono stati rapinati, cerca pure di fare pressione sul fatto che si sta per mettere a piovere. La storia dei francesi mi sembra una farsa e la pioggia non è assolutamente un problema, così lo saluto e proseguo. Mezzora e mi trovo a Maras, un povero e pittoresco comune color terra perché le mura delle case sono tutte in adobe –un impasto di argilla, sabbia e paglia essiccato al sole. Le strade sono affollate da branchi di asini e da greggi di vacche e pecore che spesso e volentieri le riempiono di letame. La popolazione è indigena, soprattutto anziani e bambini, e vive la quotidianità ad un ritmo così rilassante da essere contagioso. Chiedo indicazioni per Moray ad un vecchio sorridente con dei gran baffoni che gentilmente mi dice di proseguire per la via in cui camminavo.
Esco da Maras e ritrovo la valle, da una parte la strada per le macchine e dritto una stradina che attraversa i giallissimi campi di mais. Passeggio allegramente osservando i panorami con montagne e cime innevate tra i 4000m e i 5000m sullo sfondo. Incontro altri branchi di maiali neri e pecore guidati da bambini e cani. Come cornice al mio sentiero una serie di piante grasse di aloe e alcuni canali per l’acqua proveniente dai monti. Inizia a piovere, indosso la mantellina e proseguo spensierato fino a Moray.
Al mio arrivo smette di piovere, mi invitano a fare il biglietto a 10 soles (3 euro) e mi avvio verso il punto panoramico. Ed ecco una meravigliosa mistica serie di terrazze rotonde e concentriche scavate nel terreno che ricordano i cerchi nel grano. Si tratta di una sperimentazione agricola in cui ogni terrazza gode di un microclima diverso sia per temperatura sia per esposizione al sole. Ci sono molti enigmi su questo sito che alcuni definiscono un anfiteatro, ma le strutture sono tipicamente Inca e dovrebbero appartenere a loro. Scendo nella terrazza più profonda per godere del silenzio che riporta in vita la magia di questo luogo. Purtroppo, pochi minuti, e arrivano gruppi di turisti chiassosi in massa. Si parlano urlando da una terrazza all’altra oppure direttamente dal punto panoramico a dove mi trovo io, che sono ben 50 metri di distanza, spezzando la magia dell’atmosfera che avevo incontrato. Così me ne vado lasciando spazio a questi ignoranti.
Ritorno sulla via per Maras riattraversando i campi nuovamente sotto la pioggia. Una volta a destinazione chiedo consigli a dei contadini che mi indicano la strada verso le saline che dista qualche chilometro fuori dal centro. Attraverso la piazza principale che è un cantiere aperto, l’unica zona della città che sta per essere ammodernata per via del turismo in sviluppo. Incontro nuovamente una stradina sterrata che attraversa altri campi e scende verso un piccolo canyon. Cammino e cammino fino a quando noto in lontananza delle bellissime saline bianche formate da una moltitudine di piccole vasche una a fianco all’altra. Pago l’entrata con 7 soles (2.20 euro) e passeggio tra le vasche di dimensioni 4 metri quadri e profonde 30 cm circa. Fin dai tempi Inca il sale veniva ottenuto dall’evaporazione dell’acqua salata proveniente da una sorgente a monte. L’acqua è accuratamente incanalata in un ampia rete di canali che la trasportano nelle varie vasche gradualmente dove, sotto l’azione dei raggi solari, avviene l’evaporazione la raccolta del sale da parti dei “contadini”. Raggiungo l’ultima vasca e, in solitudine, ne approfitto per fare un gustoso spuntino con pane, formaggio e banane.
My alarm clock was set for 7.30, but I was already awake at 6, as usual. This was an ideal start for a day of exploration in the sacred valley of the Incas, leaving the town before it got busy, full of the desire to walk and without being organised. The cold benches in the squares of Cusco were occupied by sleeping homeless people and the air was already unbreathable as a result of the pollution produced by the few vehicles around - in Peru, the most noxious fuel in the world is used. The few people I met were all Peruvians, either going to work or staggering around after a Friday night out drinking. On the city walls I saw posters of bloody bullfights and stupid cockfights. At the bus terminal I took a bus that was just leaving and found myself on one of those vehicles I adore: dirty, rickety, full of locals and wonderful elegant women in woollen socks and jumpers, skirt and the traditional brown hats out of which their long plaits hang down to just above their backsides, where they are tied. Off I went!
After a journey of about forty kilometres costing 4 Soles (€1.25) I was dropped off at a junction from where a road led to the villages of Maras and Moray. Some taxi drivers tried to convince me to take one of their vehicles but when I found that Maras was four kilometres away and Moras twelve, I decided to walk. One taxi driver insisted, tellin me that the road was dangerous and four French people had recently been robbed, even adding that it was about to rain. The story about the French didn’t sound true and rain didn’t bother me, so I said goodbye and went on my way. Half an hour later I reached Maras, a poor but picturesque town whose brownish colour came from its buildings made of adobe bricks, a mixture of clay, sand and straw dried in the sun. On the roads, herds of donkeys, cattle and sheep left the road covered with excrement. Maras’ population is indigenous, with many old men and children who live their daily lives at such a relaxing rythm that it becomes contagious. I asked an old smiling man with a big moustache how to get to Moray and he kindly told me to carry on down the road I was on.
Leaving Maras, I found myself in the valley, with the road for cars on one side and straight ahead a path that crossed bright yellow corn fields. I walked happily, looking at the mountain landscape with its snow-capped peaks between 4000 and 5000 metres in the background. I saw more herds of black pigs and sheep herded by children with dogs. At the sides of the path there were aloe plants and channels filled with water from the mountains. It started to rain, I put on my cape and carried on walking light-heartedly towards Moray.
It stopped raining on my arrival. I was invited to purchase an entry ticket for 10 Soles (€3), then I walked to the panoramic spot. Before me, dug into the ground, lay a marvellous, mystical series of concentric circular terraces (photo 1) similar to crop circles. This is a agricultural experiment where every terrace has a different microclimate with a different temperature and sun exposure. There are many enigmas concerning this site that some people consider an amphitheatre but the structures are typically Inca so were probably built by them. I walked down to the deepest terrace to enjoy the silence that brings the magic of the place to life. Unfortunately, groups of noisy tourists arrived a few minutes later. Shouting to each other from one terrace to another or directly from the panoramic spot to where I was, a good fifty metres away, they were ruining the magic of the atmosphere so off I went, leaving the place to those ignorant people.
I got back on the road to Maras by crossing the fields, once again under the rain. Once there, I asked some local farmers for directions and they pointed to a road leading to the salt pans a few kilometres from the town centre. I crossed the main square, an open construction site, the only one in a town which is about to modernise in response to increasing tourism. I came to another dirt track crossing more fields and went down towards a small canyon. I walked on and on until I spotted some beautiful white salt pans (photo 2) in the distance, a multitude of tiny basins. I paid 7 Soles (€2.20) to enter the site and walked along the basins which have a surface of four square-metres and are thirty centimetres deep. Since the days of the Incas, salt has been obtained by evaporating water from springs on higher ground. The water is carefully and gradually conveyd by a network of channels to the basins where the sun evaporates it, leaving the salt to be collected by “farmers”. On reaching the last basin, I had a tasty snack in solitude of bread, cheese and bananas.
I didn’t want to go back with a full belly, so
decided to continue to the bottom of the valley, with no idea of where I was heading.
I was serene and light-hearted and felt that two fundamental factors for
happiness, time and freedom, were on my side. When I got to the bottom I found
a twenty-metre wide river that could only be the Urubamba. The only inhabited
place in the area looked like a ghost town, strong gusts of wind raised
vortexes of sand and made the entrance doors of the open houses slam. I saw
nobody around, just chickens and stray dogs. I walked in search of a bridge and
saw an indigenous woman in the distance so I walked up to her and asked for
information. She suggested that I carried on and cross over at the next bridge.
I finally crossed the river and on the other side I found a tiny settlement and
then made it to the main road. Without knowing where I was I stood at the
roadside and waited with my thumb raised. After half an hour, a man in his
forties with his wife gave me a lift in their grey Toyota for the few
kilometres to Urubamba, the town with the same name as the river. They left me
in front of the terminal for buses heading to Cusco and I took the first one
available, another rickety one, sitting down next to a fat smiling indigenous
lady. I fell asleep, tired after walking for thirty-odd kilometres and woke up
at my destination when the woman gave me a rough shove.